L’applicazione dell’ordinario periodo di comporto ad un lavoratore disabile rappresenta una discriminazione indiretta, dal momento che questo è esposto al rischio di ulteriori assenze per malattia collegata alla disabilità.
Secondo la Corte, infatti, il lavoratore disabile, proprio a causa della sua disabilità, risulta maggiormente esposto al rischio di assenze dovute a malattia rispetto ad un lavoratore non disabile ed è, quindi, soggetto ad un maggior rischio di accumulare giorni di assenza, raggiungendo i limiti massimi del comporto previsti dalla contrattazione collettiva.
Lo sancisce la Corte di Cassazione con la sentenza 9095/2023.
Nel caso in questione, la Corte ha ribadito l’illegittimità del licenziamento nei confronti di un dipendente, portatore di handicap ai sensi della legge 104/1992: il datore di lavoro ha infatti posto in essere una discriminazione di natura indiretta, avendo applicato l’articolo del Ccnl di riferimento in materia di comporto, senza distinguere assenze per malattia e assenze per patologie correlate alla disabilità.
Pertanto, i contratti collettivi che non prevedono un periodo di comporto più lungo per i lavoratori portatori di handicap rientrano nella ipotesi di discriminazione indiretta prevista dall’art. 2, comma 1, lettera b) del D.L.vo n. 216/2003.
Di conseguenza, un licenziamento adottato da un datore di lavoro per superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL che non tenga conto di tale indirizzo, risulta affetto da nullità.
Invero, in tema di riparto dell’onere probatorio, i giudici di legittimità ritengono la sussistenza di una sorta di “presunzione” di discriminazione, nel senso che al lavoratore spetterà unicamente l’onere di allegare e dimostrare lo specifico fattore di rischio (handicap) ed il trattamento che egli assume essere meno favorevole rispetto a quello riservato agli altri lavoratori in condizioni analoghe nonché la correlazione tra questi due elementi. Il datore di lavoro dovrà, invece, provare la sussistenza di circostanze “inequivoche, volte ad escludere per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”.
A dire della Cassazione poi, tale discriminazione opera in maniera oggettiva e prescinde quindi dalla volontà del datore di lavoro, restando irrilevante anche il fatto che questi non possa materialmente conoscere il concreto motivo delle assenze del lavoratore (poiché, come noto, i certificati medici non riportano la diagnosi o la causa dell’assenza). La Corte richiama, infatti, un precedente orientamento esegetico secondo cui la discriminazione opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà del datore di lavoro.
Pertanto, indipendentemente da qualsiasi volontà del datore di lavoro, l’applicazione al disabile dello stesso comporto previsto per i lavoratori non disabili costituisce ex se discriminazione indiretta, con conseguente nullità del licenziamento irrogato.
Questa sentenza si aggiunge ad altre recenti pronunce in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto di persone affette da disabilità che fanno sì che questa rendere tale tipologia di licenziamento un atto particolarmente rischioso e delicato per le aziende, specie per quelle di piccole dimensioni.
Alla luce di tale orientamento, sarebbe necessario un intervento del legislatore o della contrattazione collettiva che chiarisca il comportamento che il datore di lavoro dovrà adottare in fattispecie simili poiché, diversamente, le aziende rimarranno inevitabilmente esposte a contenziosi di portata e rischio considerevole ovvero dovranno sopportare passivamente il rischio di assenteismo incontrollato da parte dei lavoratori appartenenti alla categorie protette o ancora potranno convenire più utile violare la normativa in materia di quote obbligatorie, optando per il pagamento delle relative misura sanzionatorie.
Carla Martino
Avvocato Giuslavorista ITALPaghe.com