E’ illegittimo il licenziamento per il superamento limiti del comporto, a causa dell’assenza per malattia da contagio Covid-19

E’ illegittimo il licenziamento per il superamento limiti del comporto, a causa dell’assenza per malattia da contagio Covid-19. Nota a Tribunale di Palmi 13 gennaio 2022.

L’assenza per malattia a causa del contagio da Covid-19 non rientra nei limiti del comporto, ed il licenziamento del lavoratore per il suo superamento, che pure sfugge al divieto vigente fino al 31 dicembre, è illegittimo se nel computo dei giorni di assenza per malattia vengono considerate anche le assenze a causa del contagio.

Il caso

Una lavoratrice si è assentata per un lungo periodo dal lavoro a causa di malattia. Il datore di lavoro, verificato il superamento del periodo di comporto, ne ha disposto il licenziamento, nonostante che parte delle assenze era dovuta a malattia da contagio da Covid-19.

La lavoratrice ha impugnato il licenziamento invocando l’art. 26 del D.L. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2020, che prevede che “il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva di cui all'articolo 1, comma 2, lettere h) e i) del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, e di cui all'articolo 1, comma 2, lettere d) ed e), del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, dai lavoratori dipendenti del settore privato, è equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento e non è computabile ai fini del periodo di comporto”.

Su tale presupposto, dal calcolo del comporto l’azienda non avrebbe dovuto tenere conto dei giorni di assenza dovuti al contagio da Covid-19.

Il datore di lavoro aveva opposto la correttezza della propria scelta, sulla scorta della considerazione che in virtù del riferimento alla “equiparazione” alla malattia, riportato dall’invocato art. 26, la tutela contemplata avrebbe dovuto riguardare soltanto i periodi di quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, non anche l’ipotesi in cui il lavoratore abbia contratto l’infezione da Covid-19.

La decisione del giudice

Secondo l’organo giudicante invece, la norma in questione, “per individuare il periodo trascorso in quarantena o permanenza domiciliare richiama a sua volta l’art. 1, comma 2, lett. d) ed e) del D.L. n. 19/2020, il quale indica, da un lato, i soggetti ai quali sia stata applicata la misura della quarantena precauzionale in quanto ‘hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che entrano nel territorio nazionale da aree ubicate al di fuori del territorio italiano’, dall’altro, coloro che siano stati sottoposti a ‘divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, perché risultate positive al virus’.

Ne consegue che, secondo quanto previsto dalla normativa citata, non può essere valutato ai fini del superamento del periodo di comporto sia il tempo trascorso in quarantena precauzionale per chi ha avuto contatti con un soggetto infetto, sia quello passato in isolamento domiciliare, disposto da un apposito provvedimento del sindaco, per coloro che siano risultati positivi al virus”.

Le conseguenze sul licenziamento: nullità

Per effetto dell’esclusione dei giorni di malattia per Covid-19 , la declaratoria del licenziamento è stata quella della nullità, “per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c. e, conseguentemente, ai sensi dell’art. 18, commi 4 e 7, L. n. 300/1970 il datore di lavoro va condannato alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento, in favore di quest’ultima, di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione, oltre accessori”.

Correttamente il giudice del lavoro del Tribunale di Palmi ha infatti osservato che “secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 c.c., e agli artt. 1 e 3 della L. n. 604/1966 (v. Cass. sez. un., n. 12568/2018 e Cass. n. 19661/2019)”.

Non a caso, infatti, anche dal punto di vista formale, il superamento del comporto, pur disciplinato nello specifico dalla contrattazione collettiva, rinviene l’affermazione dei propri princìpi nell’art. 2110 c.c. e non nella legge sui licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore di lavoro deve essere condannato alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento, in favore di quest’ultimo, di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione. 

Carla Martino

Avvocato Giuslavorista ITALPaghe.co

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